“Sventolano ancora, un po’ sdrucite e impolverate, le due grandi bandiere del populismo: reddito di cittadinanza e quota 100. Un po’ più in basso di prima, però, quasi mestamente. A quelle due bandiere era stato affidato l’annuncio, invero un po’ troppo immaginifico, che l’Italia stava cambiando il suo destino. Finalmente capace di prendersi cura dei deboli e di aprire una strada luminosa per i più giovani. Se non addirittura di “abolire la povertà”.
Vasto programma che non è stato realizzato. Abbiamo speso fin qui circa 20 miliardi per il reddito (bandiera grillina) e più di 11 miliardi per quota 100 (bandiera leghista). E ora sulla prima misura pende la parola d’ordine del “ripensamento”, se non anche la minaccia di un referendum. E sulla seconda pende la scadenza di fine anno, quando sarà esaurito il finanziamento generosamente concesso ai tempi del Conte uno e si dovrà decidere il da farsi.
Argomenti che a questo punto si incrociano con l’agenda governativa di Mario Draghi costringendolo per forza di cose a barcamenarsi tra le sue convinzioni di economista e i suoi doveri di primo ministro.
Fin qui, per l’appunto, il premier ha evitato di prendere posizioni troppo nette. Ha concesso a Salvini qualche speranza sulla possibilità di andare in pensione un po’ prima del tempo (magari quota 102 in luogo della mitica quota 100) e ha dichiarato di essere favorevole, almeno in linea di principio, a un intervento a sostegno di chi si trova ai margini del mercato del lavoro. Pronunciamenti recitati senza troppa enfasi, e forse anche con un briciolo di scetticismo. Assai ben dissimulato, peraltro.
Ora, con l’avvicinarsi della legge di bilancio, i due nodi stanno venendo al pettine, e Draghi dovrà avere una cura particolare nel dosare, insieme, le cifre e gli argomenti in ballo. Egli si viene infatti a trovare nel bel mezzo di due opposte pressioni. Con il leader leghista pronto ad andare contro quel reddito di cittadinanza che a suo tempo votò allegramente. Reddito che il Pd a suo tempo non condivise e che ora invece ha fatto proprio in nome dell’alleanza con il M5S. Schema che potrebbe capovolgersi dal lato delle pensioni, dove è appunto Salvini che insiste per tenere in vita la dissennata eredità del Conte 1, spalleggiato anche dai sindacati, mentre i suoi alleati rimirano la sua difficoltà con malcelata soddisfazione.
Il fatto è che all’inizio di questa storia i due rami del populismo avevano fatto ricorso -insieme- ai più vecchi trucchi della tanto detestata politica d’antan: più spesa pubblica per ingraziarsi i cittadini (e soprattutto gli elettori). Con due aggravanti però. La prima: di elargire denaro con troppa disinvoltura proprio mentre il mondo che conta -e che fa di conto- è pronto a farci pagare ogni eccesso di disinvoltura. La seconda: di accompagnare quelle elargizioni con una campagna d’opinione velenosa attraverso cui si voleva celebrare la propria nuova virtù e condannare con adeguata severità gli antichi vizi dei vituperati predecessori. Il tutto accompagnato da una cura meticolosa della propaganda e da una cura assai più distratta dei conti pubblici.
Staremo a vedere come Draghi cercherà di risolvere questo rompicapo nei prossimi giorni. Dalle prime anticipazioni si capisce come egli non voglia ingaggiare battaglie troppo sanguinose. E come però intenda almeno correggere alcuni degli eccessi che si è trovato ad ereditare. Soprattutto quelli sul fronte previdenziale. Cosa che gli richiederà per l’appunto una felpata e diplomatica accortezza.
Se così fosse, vorrebbe dire che ancora una volta si pensa di uscire dagli eccessi del populismo con molta misura. Senza anatemi, senza umiliazioni, senza svolte troppo brusche. Come a dire che mentre l’ascesa dei populismi avviene quasi sempre con un certo fragore, il loro declino si compie semmai con una sorta di grazia nei loro confronti. Confidando che loro ricambino tanta grazia votando un governo che ha un profilo quasi -quasi- tecnocratico e accomodandosi accanto a quei partiti contro cui avevano lungamente rivolto il loro sdegno”.
(di Marco Follini)