di Umberto Cecchi
Faccio qua ammenda. Pur stimando Draghi come economista, ho sempre sostenuto che non fosse un politico. E sbagliavo: magari i nostri autonominatisi politici, ne fossero un decimo di quanto lo è lui che ha nel Dna un po’ di Einaudi e un tantino di De Gasperi: il primo impostò con gran freddezza il primo passo economico dell’Italia, il secondo si presentò con grande umiltà, nel 45-46, di fronte ai vincitori con il cappello in mano e dicendo di non avere nulla da offrire se non l’onestà di intenti e le scuse di una nazione. Draghi non deve chiedere scusa a nessuno. L’ hanno tolto dal suo nido di pensionato e proiettato in una marasma politico che rischiava di stritolarlo, in un momento in cui, c’era una guerra alla porta, una epidemia drammatica nel mondo, e una crisi economica ormai insediata nel paese e desinata a peggiorare. L’ha tamponata, non sanata, è vero, ma ha salvato la faccia dell’Italia riportandola con un ruolo interessante e credibile nei giochi non sempre chiari né sempre amici in Europa. E questo grazie alla notevole stima di cui gode nella Comunità.
Draghi non mi sembrò un politico per come si era infilato nelle nostre panie quotidiane, circondato da patrioti di seconda mano, di affaristi, di cacciatori di posti prestigiosi e di avventurieri alla ricerca di una sistemazione che fosse duratura in eterno, tenendo alla larga con mille escamotage da spaventapasseri le elezioni politiche. Aveva una bella ammucchiata di governo, che avrebbe sgomentato chiunque, ma che in fondo lo temeva: era un mito che “fece silenzio, e arbitro, si assise in mezzo a loro” (che il vecchio Manzoni mi perdoni la citazione). Ed è da li che dimostrò il piglio politico inaspettato: inquadrò alla meglio i nostri campioni del giuoco della sedia, fece loro capire che chiunque avesse tradito vistosamente l’intesa sarebbe finito, nel pensiero europeo ,nel guinnes dei politici sciocchi. Di fronte aveva le aspettative dell’Italia e alle spalle la fiducia dell’Europa: nessun altro premier, mai si e era trovato con tanta sicurezza in una situazione simile: l’esperienza Monti, drammatica, servì alla Cee e riavere un po’ di soldi e a ripulire le tasche degli italiani, ebbe ben altra sorte.
L’economista Draghi, con un cervello avvezzo alla chiarezza, aveva navigato al meglio nonostante le acque agitate esterne, rendendosi conto che qualcosa stava per finire, ma lavorando anche per non essere sfiduciato. Era lui che doveva sfiduciare, possibilmente con l’assenso del Presidente della Repubblica. Era salito al Colle, aveva avuto il viatico di Mattarella e aveva affrontato la banda di confusi al governo con un discorso di una brutalità estrema: non siete degni di governare un paese come il nostro. Io vi presento le mie scelte ultime, sono il meglio che abbiamo davanti, o le accettate o vi saluto. E poco dopo, in un governo che stava già perdendo ministri, se n’era andato. Lasciando sul tavolo l’incognita delle elezioni. E seguitando per quanto possibile a governare le urgenze.
L’ultima dimostrazione di essere un politico, Draghi l’ha data a Rimini, a una assemblea delirante, ricca di standing ovation, inserendosi a gamba tesa come dicono quelli che seguono il calcio, nel mondo confuso dei leader alla affannosa ricerca di consensi sempre più rari e dimostrando che una parte del paese giovane e stanco di tutto, era con lui. Nelle notti dei leader più o meno confusi, ora, c’è fra politici, c’è anche l’incubo Draghi. Per molti già candidato con il benestare di Mattarella, a prossimo primo ministro. In un governo si spera non raffazzonato. Un appunto a Draghi: nella sua internazionalità ha perso una parte di conoscenza di come si muove l’Italia che ha alle spalle. Le leggi vengono fatte: il problema è attuarle, finiscono in attesa chissà in quale limbo: Il vero governo del Paese ce l’ha la burocrazia più prepotente e incancrenita in una stupidità cartacea. Dietro ogni legge emanata ci dovrebbe essere un addetto a farla eseguire e non a perdersi nei faldoni delle cose dimenticate. Ma gli italiani non hanno il coraggio di spingere i loro rispettivi partiti a una riforma che potrebbe davvero rimettere in moto il paese: In Germania per aprire una caffetteria basta una settima da noi per una azienda occorre almeno un anno, una trenata di fogli, e una camionata di inutili timbri che vidimano sempre le stesse cose redatte in un italiano orrendo.