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Turchia / Oggi il ballottaggio e la sorte di Erdogan

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Il presidente in carica, Recep Tayyip Erdogan, ha lanciato ieri un ultimo appello ai suoi elettori a recarsi in massa alle urne oggi, giorno del ballottaggio presidenziale in Turchia, chiedendo “una grande vittoria”. In un tweet, Erdogan, che sfida il candidato dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu, ha esortato a “iniziare il secolo della Turchia con i nostri voti”.

Secondo quanto riferito dall’agenzia Anadolu, i seggi resteranno aperti dalle 8 alle 17. Sono oltre 60 milioni i potenziali elettori, mentre il Consiglio elettorale supremo ha riferito che quasi 1,9 milioni di turchi hanno già votato all’estero.

Un funambolo che cammina sul filo del rasoio senza percezione del rischio. L’azione politica di Recep Tayyip Erdogan è sempre stata un continuo azzardo. E anche nel suo ultimo mandato è rimasto fedele alla linea, tra mediazioni ‘impossibili’ sull’Ucraina, lo scontro con la Nato sull’ingresso di Finlandia e Svezia e i preparativi per nuove operazioni militari contro i curdi in Siria.

E di temi ce ne sarebbero ancora decine per un leader da 20 anni al potere e che non smette mai di stupire. Un rilancio continuo il suo, in cui nuovi fronti (e scontri) si aprono, mentre altri si chiudono con una stretta di mano. Oggi, nonostante i problemi di salute manifestati in campagna elettorale, si prepara per il suo numero provato e riprovato di cui è campione assoluto: la vittoria delle elezioni. Sulla sua strada stavolta ha trovato un’opposizione agguerrita come non mai, che si è unita in blocco per sbarrargli la strada. Ma sono in molti a pensare che il suo nome uscirà a maggioranza dalle urne del ballottaggio.

Sul fronte internazionale Erdogan, una volta pompiere un’altra piromane, in questi ultimi anni ha giocato su più tavoli nello stesso tempo, con un sogno nel cassetto: ospitare sul suolo turco un incontro che sarebbe storico tra Putin e Zelensky. Far fare la pace ai due leader è cruccio e obiettivo dichiarato del Sultano che a marzo 2022 sfiorò il bersaglio grosso, ospitando ad Antalya i ministri degli Esteri dei due Paesi in guerra.

Il mediatore Erdogan ha raccolto però un grande risultato con la firma a Istanbul dell’accordo che sbloccò le esportazioni di grano dall’Ucraina, scongiurando una crisi alimentare mondiale. Un successo diplomatico che il presidente turco, al momento tra i pochi leader mondiali in grado di dialogare nello stesso tempo con Zelensky e Putin, ha replicato una settimana fa strappando l’ok alla proroga dell’intesa per due mesi. E nei suoi spericolati passaggi da un fronte all’altro, ha anche facilitato uno scambio di prigionieri tra le parti.

Ma la mano di Erdogan non può essere solo piuma. Sempre nel contesto ucraino, il leader turco ha ingaggiato una battaglia politica furiosa contro l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. I due Paesi scandinavi, intimoriti dal bellicismo russo, hanno chiesto ospitalità all’Alleanza ricevendo messaggi di giubilo da tutti i membri. Tutti tranne due: l’Ungheria di Orban e, appunto, la Turchia.

Ankara, dopo aver concesso l’adesione di Helsinki, sta forzando la mano per farsi consegnare dalla Svezia alcuni personaggi legati al Pkk o alla rete Gulen, movimenti considerati alla stregua di gruppi terroristici. Un braccio di ferro, quello con Stoccolma, che per il momento non vede vincitori, ma l’unica certezza nella vita è che alla fine Erdogan otterrà qualcosa in cambio, come insegna anche il suo approccio alla crisi dei migranti condito dal ‘ricatto’ all’Ue.

Il presidente turco, intanto, tesse la sua tela regionale, creando nuove alleanze. Ha infatti fatto la pace con Emirati ed Israele e ha iniziato una “nuova era” nelle relazioni con l’Arabia Saudita dopo il gelo successivo alla morte atroce riservata dai sicari del Golfo al giornalista Jamal Khashoggi nel consolato del suo Paese a Istanbul. Un riavvicinamento sancito dalla visita di Erdogan nel regno di re Salman ricambiata da quella ad Ankara dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman.

Sullo sfondo, ma neanche tanto, restano la nuova campagna nel nord della Siria contro i curdi che il presidente turco minaccia da tempo, ma che ora sembra essere stata accantonata in nome di una possibile riconciliazione con Assad, e lo scontro con la Grecia.

Ma la partita decisiva per le sue sorti politiche Erdogan la giocherà oggi. Primo ministro dal 2003 al 2014 e da allora capo di Stato, ha traghettato il Paese – attraverso un contestato referendum costituzionale nel 2017 – da un sistema parlamentare a uno presidenziale. Le urne stabiliranno se il Sultano avrà avuto ragione anche stavolta.

Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, socialdemocratico, è l’uomo scelto dall’opposizione – non senza polemiche a dire la verità – per rivoluzionare la scena politica turca e mettere fine al ventennio al potere di Erdogan. Il leader del Partito Repubblicano del Popolo (Chp), la principale forza di opposizione in Turchia, è pronto per la sfida finale con il Sultano. Un’impresa difficile, visti i risultati del primo turno, ma non impossibile secondo il suo entourage, che ha battuto molto in questi ultimi giorni il tasto del rimpatrio dei siriani per conquistare consensi tra i nazionalisti.

Per diventare presidente, Kilicdaroglu ha messo su un cartello elettorale non proprio omogeneo dal punto di vista politico (si spazia da forze dichiaratamente di sinistra alla destra estrema) ed i cui leader all’inizio non erano tutti convinti di convergere sul suo nome. Anzi, l’annuncio della sua possibile candidatura aveva spaccato l’opposizione con l’uscita dal blocco del Buon Partito (Iyi), la seconda forza dopo il Chp, la cui leader Meral Aksener preferiva quella del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, o in alternativa di quello di Ankara, Mansur Yavas. Il compromesso che ha salvato l’apparente unità dell’opposizione è che, in caso di vittoria, i due sindaci saranno i vice di Kilicdaroglu.

Da tanti anni ai ferri corti con Erdogan, come testimoniano anche le cause in tribunale da cui è sempre uscito sconfitto, il leader del Chp dal 2010 non ha grandi successi elettorali da opporre al Sultano nella sua carriera politica. Eletto deputato per la prima volta nel 2002, Kilicadorglu venne sconfitto alle elezioni amministrative di Istanbul nel 2009. Ciò nonostante, l’anno successivo fu eletto con un plebiscito alla guida del Chp.

Le elezioni del 2011 furono relativamente positive, in quanto il partito – seppur quasi doppiato dall’Akp di Erdogan – segnò un aumento dei consensi arrivando al 26%. Un risultato pressoché analogo lo raggiunse nel 2015, mentre alle elezioni del 2018 il candidato del Chp, Muharrem Ince (che quest’anno ha annunciato il ritiro a pochi giorni dal primo turno), superò di poco il 30%.

Nel 2016 uscì illeso dopo che l’auto su cui viaggiava nella provincia di Artvin, sul Mar Nero, era finita nel mezzo di uno scontro tra uomini armati e militari. Nello scontro, secondo il quotidiano Sabah, persero la vita due soldati. Un suo consigliere spiegò che non si era trattato di un attacco contro di lui.

Nel 2017 fece di nuovo parlare di sé i media internazionali mettendosi alla guida di una marcia pacifica da Ankara a Istanbul per chiedere una riforma del sistema giudiziario. A scatenare la protesta di Kilicdaroglu fu la condanna a 25 anni di carcere del giornalista e parlamentare del Chp, Enis Berberoglu, accusato di spionaggio e di avere fornito al quotidiano Cumhuriyet informazioni per uno scoop che mise in cattiva luce il governo. La marcia si concluse ad Istanbul con un grande comizio davanti a una folla oceanica.

In caso di vittoria, ha promesso ripetendolo come un mantra nei vari appuntamenti che hanno scandito la sua campagna elettorale, governerà la Turchia in modo più democratico rispetto a Erdogan. Uno dei momenti clou della sua campagna è stato sicuramente quando, rompendo un tabù, ha rivelato di essere di fede alevita. Questa minoranza, che osserva riti e regole diverse rispetto a quelli dell’Islam tradizionale, in Turchia è stata vittima di discriminazioni e massacri. Alcuni sunniti estremisti considerano ancora oggi gli aleviti come degli eretici e si rifiutano addirittura di mangiare un piatto cucinato da loro ritenendolo “impuro”. Se dovesse essere eletto, Kilicdaroglu ha promesso di mettere fine alle discriminazioni e a “contenziosi confessionali che hanno causato sofferenze”.

In politica estera il suo obiettivo è spostare il focus di Ankara dando priorità alle relazioni con l’Occidente piuttosto che al Cremlino. “Vogliamo entrare a far parte del mondo civilizzato – ha spiegato – Vogliamo media liberi e una magistratura totalmente indipendente. Erdogan non la pensa così. Vuole essere autoritario. La differenza tra noi ed Erdogan è come tra il bianco ed il nero”.

Della sua campagna saranno ricordati gli spot girati intorno al tavolo della sua cucina, con sullo sfondo i canovacci appesi ordinatamente. In uno di questi video è apparso con una cipolla in mano, avvertendo che i prezzi continueranno a salire se Erdogan rimarrà al potere.

Un ultranazionalista anti-immigrati con simpatie kemaliste. Sinan Ogan, 54 anni, è stata la sorpresa del primo turno delle presidenziali turche, dominato dallo scontro tra il presidente in carica e il leader dell’opposizione.

Nessuno dei due è riuscito a oltrepassare la fatidica soglia del 50% e, secondo tutti gli osservatori, il 5,17% ottenuto da Ogan con la sua coalizione Ata che prende il nome dal fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Ataturk, sarà determinante al ballottaggio.
Con una mossa definita “sorprendente” dal quotidiano governativo Sabah, ma che non ha sorpreso molto gli osservatori, a inizio settimana Ogan ha annunciato che di sostenere Erdogan. Ne è nata una sorta di ‘faida’ all’interno del Partito Zafer (Vittoria), per il quale è stato candidato al primo turno, con l’ultranazionalista e leader del partito, Unit Ozdag, che ha invece comunicato il suo endorsement per Kilicdaroglu.

Ex esponente dell’Mhp, il partito nazionalista che è coalizzato con l’Akp di Erdogan, Ogan è laureato in economia aziendale presso l’Università di Marmara e ha completato un dottorato presso l’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali.

Nel 2011 è stato eletto deputato a Igdir, la sua città natale nell’Anatolia orientale che vede una considerevole popolazione azera. Egli stesso ha radici azere. La sua uscita dall’Mhp risale al 2017, in occasione del contestato referendum costituzionale con cui Erdogan trasformò l’architettura politica del Paese da un sistema parlamentare a uno presidenziale. Ogan si oppose alla decisione dell’Mhp di appoggiare la riforma.

Ogan, dal portamento altero e dall’aspetto sempre impeccabile, ha detto di essere “molto a suo agio” nel ruolo di kingmaker e ha usato i soliti toni crudi per chiarire le sue condizioni in vista del ballottaggio: “Quello che voglio è chiaro, è la partenza dei siriani. Tutti i profughi devono tornare a casa”.