Home TOP NEWS ITALPRESS Il rifiuto di dirigere “Il giornale della toscana” e una denuncia nei...

Il rifiuto di dirigere “Il giornale della toscana” e una denuncia nei suoi confronti pubblicata da “La Nazione” segnò la rottura

admin
514
0

Nel frattempo Denis, intelligentemente, aveva voluto fondare un giornale suo e mi chiese di dirigerlo durante un incontro nel suo studio di vicepresidente. Lo ringraziai, ma restai dov’ero. Gli consigliai un altro amico e ottimo giornalista: Riccardo Berti, in crisi con il suo editore. Accettò. E fece un buon ‘Giornale della Toscana’, che restò tale fin che lo diresse, resistendo a certe imposizioni verdiniane, che sul dare o non dare le notizie e su ‘come’ darle aveva una sua filosofia. E per questo fra Berti e lui si arrivò così alla rottura. Ci fu una serie di mutamenti alla direzione L’ultimo direttore, prima del fallimento, è stato l’attuale senatore di fede verdiniana Riccardo Mazzoni, e con lui l’editore-padrone del movimento aveva fatto eleggere anche l’amministratore del giornale, l’onorevole Parisi, che in qualche posto doveva pur sistemare e che da anni si stava portando dietro da Campi.

Proprio per problemi di notizie da dare o non dare, nel frattempo  fra me e Verdini si era aperta una crisi profonda. Ci fu una denuncia nei suoi confronti, ‘La Nazione’ la pubblicò e nonostante in quei giorni io fossi altrove, con il corpo e con lo spirito, perché ricoverato ad Arezzo in fin di vita per una pancreatite acuta, lui mi imputò la ‘colpa’ della pubblicazione, decisa, giustamente, rara avis, dall’allora vicedirettore che mi sostituiva. Sia chiaro che se fossi stato in sede l’avrei pubblicata tranquillamente pubblicata anch’io.

In fondo c’erano stati precedenti sul dare o non dare notizie che lo riguardavano: quando anni e anni prima la magistratura fiorentina prese la più colossale e mal gestita topica degli ultimi trent’anni [oltre ovviamente alle sciocchezze sul ‘Mostro Pacciani’ alle quale finalmente pose fine un ottimo magistrato come Piero Toni che smontò con coraggio il ‘teorema Vigna’] arrestando , per una vicenda di presunte speculazioni denominata ‘Ugnano Mantignano’, assieme a un noto e bravo vicesindaco  fiorentino, gran persona perbene – che fu mostrata in manette alla tv come se fosse stato Wanda Osiris – nella retata assurda, assieme a un giovane Riccardo Fusi e soci, finì anche Denis Verdini, per un caso di quasi omonimia: volevano arrestare Ettore – anche lui completamente innocente- e invece misero le manette a Denis. In ogni modo, anche in questo caso – ero capocronista a Firenze e Denis era mio amico – la notizia fu data e ridata. Fino al proscioglimento totale di tutti quanti.

A PALAZZO PECCI BLUNT

Ma torniamo alla vicenda che raggelò i miei  rapporti con Denis. La denuncia. Da quel momento in poi Verdini  non parlò più con me se non in rare occasioni. Sua moglie Simonetta, una carissima amica fino ad allora, invece di prendersela con suo marito, ebbe una lunga telefonata con mia moglie, nel corso della quale espresse tutti i suoi peggiori sentimenti nei miei confronti. Più tardi con lei ebbi spiegazioni. E spesso ci incontravamo a pranzo; Denis ormai volava nel firmamento degli eroi di Forza Italia, abitava al terreno di palazzo Pecci Blunt, fra il monumento al Milite Ignoto e il Campidiglio, dove la sera offriva cene alla politica della capitale, gestiva Berlusconi, e seguitava a gestire un sacco di altre cose: dalla banca di Campi dove lui faceva e disfaceva a suo piacere, al giornale, per il quale incassava ogni anno i rientri governativi che sembra non gli spettassero e che ora gli richiedono, candidava vicepresidenti nel consiglio di amministrazione di MPS, fino alle grandi convention di FI, alle feste e le cene di partito e alle cerimonie di anniversario di fondazione del ‘Giornale della Toscana’ alle Cascine alla scuola di aeronautica, al controllo di alcune emittenti radio. In realtà la sua intelligenza e la sua disinvoltura politica lo aveva portato a una sorta di ‘cupio dissovi’. Alla disintegrazione del movimento in Toscana. Dove l’unico a contare rimase lui. Tutto era cosa sua. E se Berlusconi di tanto in tanto gli imponeva qualcun altro, questi era destinato ad avere vita breve. Solo i suoi restavano. In silenzio. E fu così che allontanò tutti gli amici, restando praticamente coi clientes.

Per tornare indietro io non mi ripresentai, stufo della bizzarrie politiche dell’onorevole Tortoli, che come ex dipendente di Berlusconi non aveva digerito la mia candidatura, e stufo anche di un mondo dove si chiacchierava di tutto meno che di politica. Dove i ministri, fatte rare eccezioni, amavano più il titolo che l’impegno amministrativo. Silvio al mio posto candidò in Toscana l’avvocato Previti, [‘Capiscimi devo cautelarlo’] , con il quale avevo un ottimo rapporto, e che mi chiamò il giorno della chiusura delle liste pregandomi di ricandidarmi e mi offrì, se non volevo la Toscana, un seggio sicuro in Friuli, lo ringraziai e rimasi a La Nazione il giornale al quale ero molto più legato che non alla schizofrenia di Forza Italia e di quello strano gruppo dirigente tutto Mediaset e analfabetismo politico. Di invidie e lotta per il potere. Quando dovevo diventare capogruppo, su richiesta della maggioranza dei parlamentare Dotti, mio avversario, dichiarò al ‘Corriere’ che non potevo farlo, perché ero massone’. Ridicolo, ma tant’è. Un altro parlamentare legato a Berlusconi per via di televisioni, una sorta nessuno senza Silvio e diventato poi anche ministro, con tutto quello che ne consegue, fece uscire su ‘L’Europeo’,  un pezzo contro di me, E fu una cosa divertente perché più tardi Feltri, che ne era il direttore e mio buon amico, non seppe darne spiegazioni e mi chiese scusa.  Nell’occasione del voto per capogruppo Berlusconi chiese e Dotti, che disse no, e a me che accettai, di non spaccare il gruppo e ritirarsi dalla contesa. Dopo un’ora votammo, io annunciai il mio ritiro e venne fuori una baraonda: tutti accusarono Silvio di quella mossa, moltissimi mi votarono ugualmente e Dotti prese solo pochi voti più di me. Ma fu ugualmente felice, fino a che non dovette togliersi di torno per i pasticci della sua donna, l’Ariosto, che aveva la mania delle foto. Una sera a cena con lei, Dotti, Verdini, in una villa in Mugello, la pregai di smettere di fotografare: Sono ricordi, mi disse. Che c’è di male? E seguitò a scattare. Anni dopo ritrovai una di quelle foto su un vecchio giornale del Nord Europa, con sotto questa didascalia: ‘Trame politiche al momento del dessert’.

Mesi dopo quelle votazioni, Cartotto, un vecchio democristiano, fra i cofondatori meno noti di Forza Italia che girava sempre con una borsa piena di documenti ricchi di incredibili segreti, mi disse che non avrei dovuto obbedire a Berlusconi e non ritirarmi dalle elezione per capogruppo. Lui – mi spiegò – ricorre sempre alla mozione dei sentimenti

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui