Referendum costituzionale: un boomerang. Post referendum e scissione: boomerang doppio. Elezioni in Sicilia: colpo da k.o. Commissione d’inchiesta sulle banche: altro tremendo boomerang. Nuova legge elettorale e prossime elezioni: altamente probabile che sia non solo l’ennesimo boomerang, ma quello definitivamente letale. È difficile assistere in politica ad una sequenza di momenti di procurato autolesionismo così ravvicinati e insistiti come quelli che la sinistra si è inflitta negli ultimi 18 mesi. Matteo Renzi e il Pd, in primis, ma anche i transfughi guidati da Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema non sono da meno, come pure Pietro Grasso, Giuliano Pisapia e altre figure e controfigure che animano (si fa per dire) la nebulosa che sta alla sinistra del Partito Democratico. Ma la cosa più grave è che si stanno fiondando a tutta velocità contro il muro e nessuno sembra avere un briciolo di consapevolezza del rischio che corrono, o se ce l’hanno non fanno nulla per evitarlo, cose se fossero impietriti di fronte all’approssimarsi dello schianto.
Prendete Renzi. Rilascia un’intervista che il Corriere della Sera (18 dicembre) titola: “Vero, il mio consenso è in calo”. Vediamo quel titolo e pensiamo: deve aver capito, forse è la volta buona. Anche perché Renzi aggiunge “È evidente che il mio consenso personale non è più quello del 2014”. Poi andiamo a leggere bene e ci cascano le braccia. Intanto l’analisi: “stiamo pagando il fatto che gli altri sono in campagna elettorale mentre noi dobbiamo sostenere la responsabilità del governo”. Capito? La colpa è del presidente della Repubblica che non ha ancora sciolto le Camere e mandato gli italiani al voto. E infatti il segretario del Pd aggiunge: “ovvio che fosse meglio votare a giugno o al massimo a settembre”. Per poi concludere parlando leziosamente in terza persona: “chi allora sosteneva questa tesi è stato accusato di irresponsabilità, ma non votando si è fatto un clamoroso assist a Berlusconi e Grillo”. Quindi ripete sulla commissione presieduta da Pierferdinando Casini quello che aveva detto dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale: “Non solo non mi sono pentito, ma lo rifarei domattina”. Così come ora insiste sulla ricandidatura di Maria Elena Boschi. Buonanotte. Come scrive saggiamente Emanuele Macaluso, la collegialità tra diversi in un partito, quella vera, non tra sodali e amici, fa da scudo a chi lo dirige, ma il segretario non conosce la dialettica reale, per lui nel Pd come fuori ci sono solo amici o nemici, e così è partito pensando di mettere sulla graticola il governatore della Banca d’Italia per farne strumento di campagna elettorale in modo da recuperare il consenso perduto, e invece arrosto ci finito lui e la sua presunzione.
Ma se è definitivamente acclarato che contare sulla resipiscenza di Renzi è impossibile, così come è ormai assodato che il renzismo è un indigeribile impasto di protervia e dilettantismo, non minori responsabilità hanno gli altri leader democratici e della sinistra. A cominciare da Pierluigi Bersani. Anche lui specializzato nell’uso di quell’arma da getto tipica degli indigeni australiani che ha la proprietà di ritornare al punto di lancio quando non colpisce il bersaglio: il boomerang di elezioni vinte e perse nello stesso tempo, di un mandato esplorativo gettato alle ortiche nel penoso tentativo di inseguire Grillo e i grillini, ma soprattutto di una scissione dal Pd, avvenuta sul fronte sinistro che dunque l’ha costretto a far sue posizioni vetero comuniste che con la sua storia di riformista – di buon amministratore regionale come di ministro delle liberalizzazioni (le famose “lenzuolate”) – nulla hanno a che fare, che ha finito col puntellare la segreteria di Renzi. Sarebbe bastato attendere il voto siciliano, il cui risultato era scritto, e subito dopo dare sostanza politica, numeri e coraggio agli Orlando e ai Franceschini che – colpevolmente – non hanno saputo impedire a Renzi di far coincidere il proprio destino e quello del partito, in una sorta di cupio dissolvi che, se non ci saranno cambiamenti ora nient’affatto alle viste, costeranno al Pd un risultato elettorale disastroso, probabilmente molto peggiore di quanto già non dicano gli ultimi sondaggi. Invece Bersani il buono e D’Alema il cattivo hanno scelto di uscire, dovendosi poi penosamente aggrappare a due personaggi come Grasso e Laura Boldrini che di politico non hanno nulla ma sono solo costruzioni mediatiche, proprio loro che hanno (giustamente) criticato il solipsismo renziano e il conseguente svuotamento del partito come strumento di selezione della classe dirigente. Conosciamo e preveniamo l’obiezione di coloro che ora si chiamano “Liberi e Uguali” – nome che qualcuno irrispettosamente, ma azzeccandoci, ha detto sembrare il marchio di uno shampoo – e cioè: non si può stare nello stesso partito di Renzi senza accettare le sue regole da padrone, né è possibile immaginare un percorso unitario fra partiti con lui alla segreteria del più grande. Tutto vero, ma l’osservazione suona come conferma della nostra tesi: non era meglio restare nel Pd e, senza bisogno di abdicare al riformismo, giocarsi la partita della leadership al momento opportuno (cioè questo)?
Se a tutto ciò si aggiungono le convulsioni che hanno riguardato il ruolo di Pisapia – tentativo finito nel nulla – e l’intifada che ha fatto da sfondo ai tentativi di aggregazione a sinistra, ecco che emerge il quadro di un mondo diviso e decadente, che si autocondanna a stare all’opposizione o a fare da stampella ai 5stelle se i grillini, qualora fossero incaricati, dovessero optare per un’intesa a sinistra, numeri parlamentari consentendo, anziché a destra. Il silenzio di Romano Prodi, la lontananza di Walter Veltroni e la resa davanti all’ineluttabilità degli eventi di Giorgio Napolitano, pur umanamente comprensibili, sono estraneità assordanti mentre la (ex?) casa comune crolla.
Enrico Cisnetto