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“All’Equatore crescita mostruosa delle alghe, ho dovuto fare marcia indietro con la barca”

Adnkronos
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(Adnkronos) – Durante lo scorso Vendée Globe “mi ha sorpreso la quantità di sargassi, di alghe, che ho incontrato: una cosa mostruosa, negli ultimi dieci anni è cambiato tantissimo”. E’ la testimonianza di Giancarlo Pedote, il velista fiorentino che nell’ultima edizione del giro del mondo in solitario senza scalo e assistenza ha chiuso con un inedito -per i colori italiani- ottavo posto nella regata considerata l’Everest dei mari. Pedote ne ha parlato conversando con l’Adnkronos a margine, sabato scorso, della presentazione del suo libro “L’anima nell’Oceano”, Rizzoli, il racconto dei suoi 80 giorni intorno al globo. Alla presentazione, nella storica libreria romana “Il Mare” di via del Vantaggio, erano presenti decine di persone che a turno -per gli ovvii motivi legati alla pandemia- hanno potuto ascoltare dal vivo le esperienze del navigatore. Un evento raro, di questi tempi.  

Il fenomeno, dice Pedote, “probabilmente è dovuto al riscaldamento globale, ma assicuro che è stato sorprendente: nella fascia equatoriale le alghe coprono una superficie immensa, delle vere isole, molto più che in passato. Diciamo che ho visto il cambiamento netto negli ultimi dieci anni, e l’ultima volta è sono rimasto impressionato”. Con qualche conseguenza anche per la sua gara, aggiunge: “ci sono state delle volte che ho dovuto far tornare indietro la barca, con la vela a prua chiusa e la randa cazzata al massimo a centro barca. Pian piano si torna indietro e togli le alghe dalla deriva”.  

A volte non ce n’è stato bisogno, “grazie alla velocità: nelle nostre barche (Imoca 60 piedi, ndr) il piano della deriva è disassato, la boccola anteriore è più alta rispetto alla posteriore, e fa sì che quando basculiamo la chiglia al massimo si crea della portanza. Questo fa sì che l’imbarcazione tenda a sollevarsi. Raccogli le alghe nella connessione tra scafo e chiglia, quando alzi la barca di un metro il problema è risolto. Però a volte si prendono delle cime enormi, soprattutto cavi da pesca,ci si mettono ore a liberarsi”.  

Quanto alla plastica, “a quelle velocità, si parla di 25 nodi, hai difficoltà a scrutare davanti la prua, la visibilità è limitatissima. Credo che più della mia testimonianza faccia fede quella della comunità scientifica, e poi basta vedere la plastica che trovi in spiaggia: quest’estate alla Maddalena sono andato a pescare la spazzatura sul fondo del mare e me la son messa in barca per poi smaltirla a terra. Chiaramente capita di vedere plastiche, ma non è sulla nostra esperienza che possano farsi delle statistiche. Di ore in coperta ne ho passate ben poche durante il Vendée, in larga parte per le temperature e poi per la velocità. Non a caso quando devo fare un cambio di vela a prua rallento, se prendi un’onda a 25 nodi voli via come un foglietto di carta”.  

Nel corso dell’incontro c’è anche spazio per parlare dell’invecchiamento della “gente di mare”: sono passati i tempi in cui si sognava di emulare Bernard Moitessier e lanciarsi all’avventura sugli oceani: “oggi viviamo in un mondo in cui il virtuale ha molto più appeal del reale; e in più c’è bisogno di passare subito da un’esperienza all’altra e abbiamo bisogno di colmare lo spazio tra le due esperienze. La sindrome compulsiva con cui usiamo gli smartphone prima non c’era, questo è un fenomeno culturale: non si accettano più i vuoti e li devi riempire”.  

“Dove vivo io (a Lorient, nella Francia atlantica, ndr) fortunatamente fanno vivere ai bambini esperienze diverse: la vela, il nuoto, li portano a raccogliere i rifiuti sulla spiaggia e prendono gli schizzi di mare in faccia. Tutte cose che li mettono a contatto con il mondo. Io ho scoperto la vela insieme a mio padre quando ci siamo iscritti a un corso di windsurf, e avevo 12 anni. Forse adesso c’è davvero bisogno di tornare a cose semplici, come anche una passeggiata nella foresta o in montagna, per riconnettersi con la natura”.  

Mentre ciò che sembra dominare i tempi “è la paura di buttarsi nelle esperienze. Faccio un esempio: quando ho cominciato a regatare facevo il prodiere, e un mio amico mi ha insegnato il suo metodo: ‘se vuoi diventare un bravo prodiere devi sbagliare tutto’, ed è effettivamente così. A volte l’errore ti dà quella scarica di adrenalina, quella ‘punturina’ che mi aumenta la concentrazione. Mi rendo conto che quando, soprattutto all’inizio si sbaglia, il mondo è sempre lì pronto a spararti addosso, e questo forse è un concetto da rivedere. Bisogna assolutamente fare, e che non si faccia è essenzialmente per paura di sbagliare. Il mare è un fenomeno, ed è un modo potente di mettersi in discussione. Ma questo si può fare con qualsiasi cosa, fare fotografia, disegno: è un’attitudine verso la vita”.  

Il risultato è che tra 20 o 30 anni non vedremo più nessuno a navigare per il gusto di farlo? “Questo non lo so, non credo. Quest’anno ho fatto parecchia crociera in barca, in Sardegna, con la mia famiglia, non ho visto meno affollamento di 15 anni fa. Mi rendo conto però che oggi vogliamo tutto subito e spesso vediamo barche con le vele chiuse che vanno solo a motore per arrivare e fare subito il bagno: si perde il gusto della traversata, del viaggio”.  

“In fondo il diporto è il piacere di vivere il viaggio, il piacere di godersi ogni secondo della navigazione. L’ho apprezzato tantissimo, perché di solito io sto su barche che vanno sui 25 nodi, devi stare con le orecchie come radar per captare tutti i rumori e decifrarli, in uno stato di continua tensione, agitazione, a volte senti un fischio e dici ‘no, questo non è normale, vediamo da dove viene’, poi chiaramente la velocità stessa ti dà un tempo di reazione elevatissimo.  

Mentre vivere su una barca ‘normale’, “in un tempo che scorre lento, è anche poter stare con i bambini e non dover guardare davanti perché la barca va piano.Quest’estate ho preso un grande piacere, cosa che mi rendo conto per tanti non è: perché magari abbiamo bisogno subito di passare da un’esperienza all’altra e nello spazio tra le due esperienze abbiamo bisogno di colmarlo. La sindrome compulsiva con cui usiamo gli smartphone prima non c’era, questo è un fenomeno culturale: non si accettano più i vuoti e lo devi riempire”.  

(di Paolo Bellino)