(Adnkronos) – Consegnata alla storia del cinema come musa dei drammi borghesi di Michelangelo Antonioni, Monica Vitti, scomparsa oggi a 90 anni a Roma, dopo una lunga malattia, ha rappresentato nei primi anni Sessanta la risposta italiana alle bellezze antiretoriche e spigliate della Nouvelle Vague francese. Rotto il sodalizio con il regista ferrarese, a cui fu anche legata sentimentalmente, ha ritrovato l’originaria verve comica grazie a una lunga serie di brillanti commedie che hanno segnato il suo successo popolare.
Premiata più volte nel corso della sua carriera, la grande attrice ha ricevuto sei David di Donatello, tre Nastri d’argento, un Orso d’argento nel 1984 al Festival di Berlino per “Flirt” (1983) di Roberto Russo, e un Leone d’oro alla carriera nel 1995 alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. Già allontanatasi dalle scene da quasi un decennio e prima di ritirarsi definitivamente a vita privata, a causa delle sue condizioni di salute, si mostrò al pubblico per l’ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana di “Notre-Dame de Paris”.
Nata a Roma il 3 novembre 1931 come Maria Luisa Ceciarelli, trascorsa l’infanzia a Messina, ritornò con la famiglia a Roma dove frequentò i corsi del Pittman’s College e poi l’Accademia d’arte drammatica, diplomandosi nel 1953. Nello stesso anno debuttò in teatro. Al cinema Monica Vitti si avvicinò come doppiatrice, nonostante la caratteristica voce roca. Come attrice si vide invece scartata in molti provini, a causa della lontananza dallo stereotipo delle ‘maggiorate fisiche’, allora imperante.
Dopo una piccola parte in “Sulla spiaggia” (1954), episodio di “Ridere! Ridere! Ridere!” di Edoardo Anton, ne ottenne una di rilievo in “Una pelliccia di visone” (1956) di Glauco Pellegrini. A dare una svolta alla sua carriera fu l’incontro con Antonioni (1957), che in teatro la fece diventare primattrice della Compagnia del Nuovo da lui diretta, mentre nel cinema, dopo averle affidato il doppiaggio di Dorian Gray in Il grido (1957), costruì su misura per lei “L’avventura” (1960), in cui la Vitti, al centro di un sottile gioco di misteri e di introspezione psicologica, fornì una prova superba, fatta di silenzi e sguardi perduti.
Divenne quindi per Antonioni la musa del cinema dell’incomunicabilità, interpretando capolavori quali “La notte” (1961), per il quale ottenne nel 1962 un Nastro d’argento come miglior attrice non protagonista, “L’eclisse” (1962) e soprattutto “Deserto rosso” (1964), film-manifesto dell’esistenzialismo antonioniano.
Verso la fine del sodalizio artistico e sentimentale con il regista, ritornò alla commedia (ottenendo il suo primo David) con “La lepre e la tartaruga” (1962) di Alessandro Blasetti, episodio del film collettivo “Le quattro verità”. Grande rilievo ebbe nel 1964 il suo ritorno al teatro diretta da Franco Zeffirelli in “Dopo la caduta”, il dramma di Arthur Miller sulla vita di Marilyn Monroe, spettacolo ripreso da una troupe guidata da Antonioni.
Ma nel cinema la Vitti s’indirizzò definitivamente verso il genere leggero: “La sospirosa” (1964) e “Fata Sabina” (1966) di Luciano Salce, episodi dei film collettivi “Alta infedeltà” e “Le fate”, “Il disco volante” (1964) di Tinto Brass, “Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo!” di Francesco Maselli, “Ti ho sposato per allegria” di Salce, “La cintura di castità” di Pasquale Festa Campanile, tutti del 1967.
“La cintura di castità” segnò l’inizio del suo sodalizio anche sentimentale con Carlo Di Palma, che avrebbe fotografato tutti i suoi film fino alla metà degli anni Settanta.
Il grande talento comico della Vitti, riconosciuto dal pubblico e dalla critica, risultava però sacrificato dalla struttura della commedia all’italiana, che relegava in ruoli marginali i personaggi femminili. A offrire una più interessante occasione furono Rodolfo Sonego e Luigi Magni, che scrissero per lei “La ragazza con la pistola” (1968) di Mario Monicelli. Il ruolo di una siciliana sedotta e abbandonata che insegue a Londra l’uomo che le ha tolto l’onore, rappresentò la sua consacrazione come attrice brillante (ottenne nel 1969 un Nastro d’argento e un David), e diede il via a una serie di film in cui interpretò personaggi svagati e stralunati, con uno stile di recitazione al limite del grottesco, insolito nel panorama delle attrici italiane di allora.
Poté così confrontarsi da pari a pari con i grandi ‘mattatori’ del cinema, da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, da Ugo Tognazzi a Marcello Mastroianni e a Giancarlo Giannini.
Dopo “Amore mio, aiutami” (1969) di Sordi, “Vedo nudo” (1969) di Dino Risi e “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” (1970) di Ettore Scola, Risi costruì su misura per le sue ambizioni di trasformismo “Noi donne siamo fatte così” (1971), un film a episodi che le diede la possibilità di interpretare dodici diversi ruoli.
Così come Antonioni, anche Di Palma ne fece la sua musa, e grazie a lei poté affrontare il passaggio alla regia, confezionando tre commedie brillanti che rappresentano altrettanti omaggi al suo talento di interprete leggera: “Teresa la ladra” (1973), “Qui comincia l’avventura” (1975) e “Mimì Bluette… fiore del mio giardino” (1976).
In quel periodo ottenne altri quattro David: nel 1971 per “Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa” diretto nel 1970 da Marcello Fondato, nel 1974 per “Polvere di stelle” (1973) di Sordi, nel 1976 per “L’anatra all’arancia” (1975) di Salce (per il quale ebbe nello stesso anno anche un Nastro d’argento) e nel 1979 per “Amori miei” (1978) di Steno. E ancora: “La Tosca” (1973) di Magni, “Letti selvaggi” (1979) di Luigi Zampa, “Non ti conosco più amore” (1980) di Sergio Corbucci, “Tango della gelosia” (1981) di Steno, “Camera d’albergo” (1981) di Monicelli, “Io so che tu sai che io so” (1982) di Sordi.
Monica Vitti tornò temporaneamente al cinema drammatico e alla collaborazione con Antonioni in “Il mistero di Oberwald” (1981). La fama conquistata in Italia le aveva permesso negli anni Sessanta e Settanta di partecipare a coproduzioni internazionali, come “Il castello in Svezia” (1963) per la regia di Roger Vadim, “Modesty Blaise, la bellissima che uccide” (1966) di Joseph Losey, “La pacifista” (1971) di Miklós Jancsó, “Il fantasma della libertà” (1974) di Luis Buñuel, “Ragione di Stato” (1978) di André Cayatte.
La commedia “Scandalo segreto” (1990) è stata la sua ultima prova come attrice e l’unica come regista; oltre alla sceneggiatura di questo film ha firmato quelle di “Flirt” e “Francesca è mia” (1986) del fotografo di scena e regista Roberto Russo, che ha sposato il 28 settembre 2000, in Campidoglio, dopo 27 anni di fidanzamento.
Nel 1986 Vitti aveva tenuto corsi di recitazione all’Accademia d’arte drammatica, riavvicinandosi al palcoscenico come attrice, sotto la guida di registi quali Giancarlo Sbragia ed Eduardo De Filippo. Attivissima in televisione fin a partire dal 1955, ha recitato sul piccolo schermo in commedie, sceneggiati, spettacoli di varietà (uno dei quali, “La fuggidiva” del 1983, diretto e sceneggiato da lei stessa). Ha pubblicato l’autobiografia “Sette sottane” (Sperling & Kupfer, 1993) e il romanzo “Il letto è una rosa” (Mondadori, 1995).
(di Paolo Martini)