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Genchi rivela: “La Barbera e quelle armi manipolate del pentito”

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(Adnkronos) – (dall’inviata Elvira Terranova) – La rivelazione arriva a inizio udienza quando, per la prima volta, Gioacchino Genchi, ex vicequestore aggiunto della Questura di Palermo, per un periodo stretto collaboratore di Arnaldo La Barbera, e oggi avvocato penalista, ricorda un retroscena inedito, mai raccontato fino ad oggi. Un episodio che sarebbe avvenuto nel 1989, dopo l’arresto del pentito di mafia Totuccio Contorno, che era tornato a sparare e fu accusato, da una lettera anonima inviata all’epoca all’Alto Commissariato antimafia, di essere un ‘killer di Stato’. “Mi ricordo che La Barbera mi parlò di armi portate a Ostia, riempite di sabbia – racconta oggi Genchi – fecero sparare le pistole con la sabbia per alterare le macro e micro striature della canna dell’arma affinché poi non vi fosse possibile corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadavere dei diversi omicidi che erano stati consumati prima della cattura di Contorno”. Insomma, una vera propria operazione di manipolazione per far sì che le armi trovate a Contorno venissero modificate. Dichiarazioni mai fatte prima di ora. “Le armi sarebbero state portate a Roma per fare le perizie balistiche”, dice Genchi rispondendo poi, dopo il controesame, al giudice a latere che si mostra interessato all’episodio inedito, e gli chiede perché proprio a Ostia. “Per scongiurare ogni ipotesi, mi disse La Barbera”, spiega ancora l’ex poliziotto. Un modo per coprire un ‘killer di Stato’? Un giallo che si infittisce. 

Poi, Gioacchino Genchi nel corso della deposizione fiume, parla anche della sua collaborazione con La Barbera e del cambio di atteggiamento dell’allora dirigente della Squadra mobile. A cambiare tutto, all’improvviso, era stato l’arresto, nel Natale del 1992, dell’ex 007 Bruno Contrada. Da quel momento in poi sarebbe cambiato radicalmente l’atteggiamento di La Barbera, impegnato nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992. “La sua strategia era quella di ‘vestire il pupo’ e di chiudere le indagini al più presto, perché a Roma volevano che facesse così. La Barbera ha eseguito direttive e non ha mai agito da solo. Ora è facile processare i morti…”. “Mi diceva ‘Noi dobbiamo vestire il pupo così come è – dice Genchi – dobbiamo chiudere al più presto e andarcene”.  

E’ un fiume in piena, l’avvocato Gioacchino Genchi, ex vicequestore aggiunto della Questura di Palermo, nella lunga deposizione al processo d’appello sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia in concorso aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra. Secondo l’accusa i poliziotti, guidati da La Barbera, avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che poi ha fatto condannare all’ergastolo degli innocenti. In primo grado per Bo e Mattei è subentrata la prescrizione mentre Ribaudo è stato assolto dall’accusa. Genchi, in oltre sei ore di deposizione, ha risposto a tutte le domande di accusa e difesa, ripercorrendo il periodo che va dal 1988 al 1993, quando collaborò con l’allora dirigente Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002.  

Gioacchino Genchi, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla Procura generale, e al sostituto Pg Antonino Patti, ribadisce più volte che Arnaldo La Barbera “era portatore di direttive precise. Non faceva nulla, se non sotto il controllo del Capo della Polizia Parisi e del Prefetto Luigi Rossi. La Barbera ha eseguito direttive e non ha mai agito autonomamente”. Ma più volte sottolinea che la traiettoria di La Barbera, a un certo punto, avrebbe preso una piega diversa. “Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali. Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali”, sottolinea l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino. “La Barbera era stato istruito dall’allora Procuratore di Caltanissetta Tinebra sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo, quindi La Barbera eseguiva direttive, sempre. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo. Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Barbera ‘L’ultima cosa che farò, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermo’. Siamo tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 – precisa Genchi – La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore”.  

Nel corso dell’udienza fiume occhi puntati anche sull’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, scomparsa dopo la strage di via D’Amelio. “L’unica interlocuzione è stata con il pm di Caltanissetta Fausto Cardella che mi prese una borsa dall’armadio e mi fece vedere all’interno una batteria affumicata e un costume in nylon con i lacci. E mi chiese un’opinione e io dissi che, secondo me, quella batteria non era nella borsa ed era stata solo lambita”. Genchi è convinto che l’agenda non si trovasse nella borsa del magistrato. “Se l’agenda fosse stata dentro la borsa il costume avrebbe dovuto incendiarsi prima della carta. Quindi, secondo me, l’agenda non era dentro la borsa se si è bruciata. Il costume era sicuramente dentro la borsa ma l’agenda no”.  

Poi, continuando a parlare dell’agenda rossa ricorda quella volta che Arnaldo La Barbera “era fortemente rattristato, anzi era più che altro incazzato, per il fatto che venisse adombrata la possibilità che lui avesse sottratto l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino. E a lui avevano riferito che la signora Agnese avesse delle riserve sul suo conto per il fatto che lo ritenesse o, meglio, fosse stata convinta -e lui riteneva che lei fosse pilotata dai carabinieri- a convincersi che l’agenda rossa l’aveva sottratta lui”. Genchi ricorda “un particolare significativo”. “Una sera andammo a cena a Palermo in una pizzeria e c’erano il pm Fausto Cardella, Arnaldo La Barbera e Ilda Boccassini, andammo da ‘Peppino’. Eravamo seduti al tavolo quando entrò la signora Agnese, la figlia Lucia e altre persone. Siamo andati a salutarla, si sono baciate con la Boccassini, la signora Agnese però si rifiutò di salutare La Barbera. Di questa cosa se ne fece un cruccio, era mortificato”.  

Poi, tornando a parlare dell’arresto dell’ex 007 Bruno Contrada, per concorso esterno in associazione mafiosa, il 24 dicembre del 1992, Genchi ribadisce che La Barbera e i suoi superiori “erano preoccupati” perché l’ex funzionario dei servizi segreti “era stato sempre un uomo delle istituzioni e c’era la paura di quello che poteva tirare fuori. Contrada era stato mollato, era stato espulso dal sistema, che a quel punto si doveva ricompattare”. “Contrada, volendo, dopo l’arresto, avrebbe potuto palesare argomenti che potevano non essere graditi. C’era una forma di complicità o un tentativo di aiutarlo. C’era paura di Contrada e questo me lo disse La Barbera perché avrebbe potuto parlare anche di una serie di vicende come quella di Contorno”. Qui scatta la “marcia indietro” di La Barbera. “E’ da quel momento che iniziano le certezze di La Barbera di avere la promozione, inizia il tentativo di chiudere e di semplificare le cose, di ‘vestire il pupo’ come disse lui stesso”. 

Gioacchino parla anche dell’arresto del Capo dei capi Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993. “Seppi in anticipo che nel gennaio sarebbe stato arrestato e che lo avrebbero arrestato i carabinieri. Perché la Polizia doveva essere ‘commissariata’, la Polizia dopo l’arresto di Bruno Contrada, nel gennaio del 1993, doveva chiudere, insomma”. E sulle stragi si dice convinto che “non si volevano individuare i veri responsabili delle stragi, su Capaci c’era il movente politico”. E racconta un aneddoto: “Nel ’92 La Barbera voleva andare via da Palermo e lasciare la Squadra mobile. Ricordo che mi disse una frase particolare: ‘Prima di andarmene devo fare un giro in elicottero su Palermo e arrivato sopra la questura fare la pipì’. Me lo disse alla fine del ’91 e prima dell’omicidio Lima”. 

Gioacchino Genchi ricorda anche la vicenda del falso pentito Salvatore Candura, che fu creduto dai pm di Caltanissetta. “Io percepii subito che si trattava di un soggetto che presentava dei grossi problemi di ordine psichico. La seconda percezione fu che in tutte le risposte di Salvatore Candura dimostrava di essere istruito. Uscendo pensai che bisognava verificare molto i contenuti delle dichiarazioni”. Salvatore Candura è l’ex pentito che si autoaccusò del furto della 126 utilizzata come autobomba per la strage di via d’Amelio. Dichiarazioni che poi si rivelarono false. Solo successivamente Candura raccontò che l’allora dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera e l’allora funzionario di Polizia, Vincenzo Ricciardi, gli avrebbero prospettato che avrebbe rischiato l’ergastolo se avesse ritrattato. I tre imputati, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia perché secondo la Procura generale avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio. L’ex funzionario di Polizia Genchi oggi ha detto che nel 1992 ha assistito a Mantova all’interrogatorio tra il pm Carmelo Petralia e il falso pentito Candura. Ma per Genchi “erano evidenti le assurdità riferite” da Candura. Lo stesso ex pentito fu poi condannato per calunnia.  

Tornando alla collaborazione con Arnaldo La Barbera, Genchi ribadisce che con il suo arrivo “l’attività di intelligence venne trasferita a me”. Nell’estate del 1988 “riuscimmo a intercettare una cabina telefonica a San Nicola L’Arena da cui telefonavano spesso Giuseppe Grado e il collaboratore di giustizia Totuccio Contorno. Chiamavano anche a Gianni De Gennaro. Quella cabina telefonica era una miniera d’oro. Contorno informava di tutto quello che faceva. Parlava di ‘lumache’ e di ‘rugiada’, ma è chiaro che parlava di persone che uscivano ‘le corna’ come i babbaluci (le lumache ndr). Io non me la sentivo i restare a Palermo. Avevo studiato diritto penale e avevo letto che non impedire un evento equivale a cagionarlo. E me ne andai a Roma con la mia famiglia”. E qui fa la rivelazione sulle armi con la sabbia: “Seppi da La Barbera che vi erano state delle operazioni di manipolazione per far sì che venissero modificate. Arnaldo La Barbera mi parlò di armi portate ad Ostia, riempite di sabbia affinché poi non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi avvenuti prima della cattura di Contorno”.  

Il rapporto fra La Barbera e Genchi divenne sempre più stretto fino a quando scoppiò il ‘caso’ de pentito Totuccio Contorno tornato in armi in Sicilia facendo base proprio a San Nicola l’Arena. Genchi fa anche un’altra rivelazione: “Ricordo che un giorno ebbi uno scontro furibondo con la pm Ilda Boccassini sul controllo delle carte di credito di Giovanni Falcone. Mi accusava di volere indagare sulla vita privata di Falcone, dopo che lei stessa mi aveva fatto indagare su tutta la vita di Falcone, ma per me era l’unico moro per capire se il giudice era stato negli Stati Uniti”. La deposizione è proseguita fino al tardo pomeriggio. Il processo riprenderà il prossimo 20 febbraio quando il Presidente della Corte Giovambattista Tona scioglierà delle riserve.