Le fabbriche sono ferme, e ogni giorno che arriva se ne chiudono altre. Alcune perché vengono riaperte oltre i patrii confini, altre perché non riaporono proprio: Altre infine perché straniere e se ne tornano a casa.
I campi sono abbandonati, i boschi inaridiscono, i sottoboschi bloccano il drenaggio delle acque e la natura macina vittime, trascina a valle valanghe di terra e acqua, si porta via le case. Ma nessuno, proprio nessuno vuol tornare alla terra, che chiede disperatamente aiuto. Diceva mia nonna che chi ha pane non ha denti, e viceversa: i pomodori li raccolgono i neri. Noi ci vergognamo..
Negli anni Sessanta il sud saliva da noi a lavorare. Era gente seria, affamata, disperata. E trovò lavoro, pane, e casa. E tutti sono ancora qui da noi. Ma anche loro hanno preso i nostri vizi. Non vogliono più fare certi lavori.
Eppure, se non ci riescono i privati dovrebbe provarci lo stato a reperire terre da lavoro. Ripronendo la campagna come valvola di sfogo al lavoro. Si chiama welfare, quello vero. E la campagna, oggi, non è quella di cento anni fa: un lavoro forzato. Oggi ci sono le macchine, sia per lavorare che per comunicare. C’è un mondo nuovo anche sulle nostre colline in gran parte abbandonate, nelle nostre pianure dove ci si preoccupa di più per la salvezza del ‘girino della piana’ che non per la sopravvivenza dell’uomo.
E se ricominciassimo da capo? Se smettessimo di aver paura di fare quei lavori che esistiono, ma spaventano, perché ritenuti disdicevoli?
Se smettessimo di ciondolare davanti ai bar con la bottiglia di birra in man
o?
Umberto Cecchi