Quando la politica (chiamiamola così) si fa con gli annunci estemporanei e slogan, il rischio di combinare guai è altissimo. Ne è un esempio l’ultima uscita di Matteo Renzi in tema di deficit pubblico, anche se prospettata per il suo ritorno (?) a palazzo Chigi anziché per il presente. Dice il segretario del Pd, in un libro dal nome improprio (“Avanti”) ora uscito, che occorre tornare al patto di Maastricht, e quindi prospetta un quinquennio di deficit corrente a ridosso della soglia del 3% per poter consolidare il rilancio dell’economia italiana. E pazienza se questo significa il tradimento degli impegni europei assunti con il Fiscal compact, e la conseguente apertura di una procedura d’infrazione.
Diciamo subito che la proposta – pur in assenza di un’analisi che avrebbe dovuto precederla e sostanziarla, e pur essendone chiare le finalità strumentali, politiche ed elettorali – è perfettamente legittima. Ma con altrettanta nettezza, diciamo che non solo è doppiamente sbagliata, ma anche assai pericolosa. Partiamo proprio dal rischio che essa contiene, figlio di una clamorosa contraddizione. Renzi, da Presidente del Consiglio, ha sbandierato ai quattro venti una ripresa che non c’era, e che per quel poco che si è manifestata, è stata interamente frutto della politica monetaria della Bce di Draghi e della congiuntura internazionale, tant’è che è stata, ed è, tutta basata sull’export. Da quando ha lasciato palazzo Chigi, ha smesso con quello stucchevole ritornello – solo per non fare un (presunto) favore a Gentiloni – e ora, proprio quando la ripresa comincia ad essere un pochino più robusta, ci viene a dire che occorre ben altro, lui che ha bollato come “benaltristi”, oltre che come “gufi”, tutti coloro – noi tra questi – che si permettevano di obiettare che la politica economica del suo governo, basata su bonus che si sperava si traducessero in consumi, non dava frutti e non era quella giusta. Ma questa contraddizione sarebbe nient’altro che fastidiosa se non fosse che è potenzialmente assai infida. Perché sottende l’idea che la “crisi italiana” dipenda da fattori esogeni, come appunto gli orientamenti europei, e non già dalle politiche (e dalle non scelte) nazionali, e che non sia preesistente e prescindente rispetto alla grandi crisi mondiale del 2008 e alla recessione che ne è seguita. Sarebbe dunque ora che la politica e l’intera classe dirigente, si impegnassero in un lavoro di analisi puntuale delle origini distintive del nostro declino – prima di tutto ammettendone una volta per tutte l’esistenza – per poi declinare un piano rifondativo del Paese su cui basare alleanze e contrapposizioni politiche, finalmente scevre da motivazioni strumentali, ideologiche o peggio personalistiche, come è stato dal 1994 in poi. Finora solo il piano Calenda per una nuova rifondazione del nostro capitalismo sulla base delle sfide della grandi rivoluzioni tecnologiche in atto, ha seguito questa logica. Ma quello è un tassello di un puzzle ben più complesso, di cui non se ne vede traccia.
Detto questo, all’Italia serve o no fare maggior deficit? Certo che sì, i lettori più affezionati sanno che sono anni che lo sosteniamo. La nostra non è una crisi congiunturale, ma strutturale, e come tale non può essere affrontata senza una dose massiccia di investimenti pubblici. Tanto più nell’ottica sia della rifondazione capitalistica di cui abbiamo detto, sia per soddisfare l’imprescindibile modernizzazione infrastrutturale (materiale e immateriale) di un paese troppo vetusto per immaginare di riuscire a tenere il ritmo di crescita dei paesi competitor, europei e non. Dunque, viva la proposta di Renzi e pazienza per le sue contraddizioni? Manco per idea. Intanto perché non bastano certo quei 30 miliardi in cinque anni che Renzi immagina di avere a disposizione grazie alla sua “trasgressione”. Mettersi dalla parte del torto – perché noi italiani il Fiscal compact mica lo abbiamo contestato: è stato approvato e tradotto in vincolo costituzionale senza che Renzi e il su partito abbiano speso una parola di diniego – per una cifra del tutto insufficiente è come farsi dare l’ergastolo per aver rapinato una vecchietta sull’autobus. Un errore sesquipedale. Tanto vale continuare ad elemosinare la cosiddetta “flessibilità”, cioè un po’ di sconto sui tempi di rientro verso il deficit zero, come abbiamo fatto in questi anni. È poco dignitoso, lo abbiamo sempre denunciato, ma meno peggio che rompere con Bruxelles per poco di più.
Il secondo motivo per cui la “via Renzi alla crescita” non va bene è proprio legato all’inopportunità di una rottura in Europa in questa fase storica. Prima di tutto perché saremo l’ultimo paese importante ad avere elezioni politiche e l’unico in cui il rischio che i movimenti populistici e sovranisti prendano il sopravvento è alto, forse maggiore del suo contrario. Dunque, ora più che mai abbiamo bisogno dell’Europa e di alleanze con i più forti. Stare fuori dal ricostituendo asse franco-tedesco o, peggio, rischiare il cartellino rosso muovendoci sulla base della presunzione che tanto “siamo troppo grandi per essere messi fuori”, sarebbe esiziale. Certo che le rigidità europee sono un vincolo, spesso stupido, ma per combatterle occorre avere idee alternative forti e credibilità politica, istituzionale ed economica. Qualità che non si possiedono se si è il paese della spesa pubblica assistenziale e delle intemerate alla Renzi contro l’Europa per puri fini elettorali (senza nemmeno il lucro). Altrove chi avesse portato il proprio paese ad uno scontro epico su riforme costituzionali presentate come rivoluzionarie e lo avesse perso, non avrebbe più voce. Da noi si costituisce – ancora una volta – come lo spartiacque della politica, l’alfa e l’omega delle sorti nazionali. E non esita ad usare il paese come scudo per predisporre una campagna elettorale che, stante le premesse, sarà all’insegna dello scontro con Bruxelles, indicata come nemico da battere.
Ma c’è, infine, anche un terzo motivo per cui la proposta Renzi è da respingere: non dice come sarà utilizzato quel tesoretto che vorrebbe costituire dribblando gli obblighi europei. Perché un conto è se quelle risorse vengono utilizzate per insistere sullo schema già fallito “+soldi=+consumi=+pil” o genericamente per un abbattimento delle tasse – che per essere efficace richiede somme ben più grandi – a parità di tutte le altre condizioni, o se invece sono messe al servizio di un progetto di rinascita con forti investimenti (anche) pubblici.
Ma un grande piano di stampo liberal-keynesiano – di cui qui abbiamo delineato da tempo i contorni – richiede deficit almeno al 5-6%, e quindi va ben oltre la provocazione bullesca del segretario del Pd. E per reggere una simile forzatura, non solo nei rapporti con la Ue ma anche in termini di tenuta del nostro sistema economico, specie sui mercati finanziari (leggi spread), essa non può non essere accompagnata da un rigorosissimo piano di rientro del debito che vada ben oltre il miglioramento virtuoso del rapporto debito-pil per via dell’incremento del prodotto. Occorre, cioè, un piano di abbattimento una tantum dello stock di debito, attraverso una valorizzazione finanziaria del patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare, sia dello Stato che degli enti locali. Insomma, qualcosa di ben più sofisticato delle provocazioni fatte per guadagnare la scena mediatica e alimentare la paranoia (mai sopita) di elezioni autunnali anticipate.
Enrico Cisnetto