di Umberto Cecchi
Alle mie lamentazioni sul fatto che Firenze, alla fine si ritroverà ricca di memorie scolorite e in parte rovinate dal tempo e dall’incuria, un amico, docente universitario, avvezzo a vedere il mondo senza vestirlo di fantasie, colori o rimpianti, mi dice: ‘Te ne accorgi solo ora? Cominciò il Poggi a buttar via le mura, il mercato vecchio e il ghetto, e da allora nessuno ha smesso. Pensaci bene: la nascita dell’Italia novella ha segnato l’inizio dei danni fiorentini. Se ben ricordi, quella nascita fece fallire il comune di Firenze, con buona pace del resto del Regno, che si guardò bene di risarcire i danni fatti all’amministrazione cittadina insediando qui la capitale.
Così è: abbiamo oggi un’amministrazione distratta, messa assieme da ipotetiche affinità elettive con Matteo Renzi, che vedeva Firenze come la ‘sua’ capitale: roccaforte di neopolitiche rottamanteggianti e di alleanze dal forte e utile potere intermediario fra economia e politica, che era almeno impegnata a cantare le laudi del Divo Matteo, tanto da non rendersi conto delle voragini che si spalancavano nel cuore della città: non solo quello politico, ma anche economico, produttivo, intellettuale. Un corredo che evidentemente non interessa né interessava agli amministratori. Dove intellettuali addormentati dalla sinecura politica, altri zittiti da una barriera creata loro attorno dalla albagia di una maggioranza insofferente ai rito della democrazia che vorrebbero invece che tutti avessero spazio nella gestione della cosa pubblica: spazio di idee. Una maggioranza del ‘tuttomio’ che alla fine è stata cullata e vezzeggiata anche dai rari industriali della città e dai tanti commercianti, questi ultimi da sempre i veri padroni di Firenze. Con una differenza: nei tempi andati i commercianti arricchivano la città con offerte grazie alle quali si abbelliva, oggi invece, arricchiscono solo se stessi. Senza l’offerta di un obolo.
Scandalo? Dico cose assurde? E sia, ma prendiamo ad esempio il Comunale, ovvero il ‘Maggio Fiorentino’ che da anni sopravvive povero e solo, in lotta coi bilanci come un nobile signore decaduto. E’, almeno sulla carta e nelle memorie, uno dei grandi centri melodrammatici d‘Italia assieme alla ‘Scala’: ma la ‘Scala’ ha soldi, sovvenzioni sostanziose dello Stato, del Comune, della Provincia e Regione, e gode dell’intervento generoso di aziende e privati. Commercianti che amano la città. I fiorentini no: non danno una lira, neppure gli imprenditori più illustri e doviziosi. Ed è raro vedere assistere a uno spettacolo la maggior parte di loro, a meno di ottenere un biglietto omaggio. Come vecchio consigliere di amministrazione, posso tranquillamente testimoniarlo e sarei in grado di elencare nome per nome, cifra per cifra, le ‘offerte’ più che micragnose. Strappate con suppliche.
Così è: sperduto dietro la Leopolda, stazione di transito dalla politica alla postpolitica, creatrice di spettacoli ben diversi, circondato da capolinea di bus cittadini ed estracittadini, con marciapiedi dove le buche sono una regola, il nuovo comunale, impostoci da Roma con quella sua architettura ‘spezzonata’, a graticcio in cemento, mimetizzata fra il Fosso Bandito e più in là il Fosso Macinante, ci passa di mente anche il fatto che esista, salvo risvegli stagionali che non entusiasmano certo la città.
Ma il Comunale, è cultura. A chi importa la cultura? A Firenze ne abbiamo già fatta anche troppa. Ma l’aeroporto è impresa. E’ turismo. E’ business. Eppure Unipol e Carrai – il presidente dell’aeroscalo- sono ai ferri corti per l’uso dell’aerea. E intanto l’Unipol, impresa bolognese, si è portata via nel gran silenzio della città, uno dei gioielli fiorentini senza neppure lasciarne il nome ‘a memento’: ‘La pluricentenaria’ Fondiaria: in città ci sono centinaia di cartelli affissi sulle mura di palazzi con su scritto ‘Proprietà fondiaria’. Ma l’Unipol è ‘Unipol-Sai’ e lo è anche nella piana di Sesto a tu per tu con l’aeroporto, dove per accordi ormai pregressi dovrebbero sorgere migliaia di appartamenti. Ai possibili futuri abitanti – ma dove sono, visti i tempi che corrono? – non piacerà affatto avere uno scalo fuoricasa. Chi soffrirà di tutto questo? Unipol-Sai o Firenze? Cioè aeroporto.
La lista delle cose che mancheranno è ancora lunga: la stazione Foster per la quale si è scavato un tunnel che farebbe la gioia di Sussi e Biribissi in viaggio al centro della terra, non si farà: le stazioni non la vogliono più. Hanno già speso per Bologna. Anche l’alta velocità recalcitra nella scelta dei tracciati: venerdi scorso il mio treno 9520 delle 12 ha impiegato venti minuti a percorrere il tratto Santa Maria Novella-Rifredi: un’ora di ritardo per Milano. Non basta: la bella SMN di Michelucci è diventata una stalla per mandrie in transumanza: per un caffè bisogna uscire e rientrare da fuori, a meno che non si faccia una fila infinta da Feltrinelli. Non esiste una sala d’aspetto, motivo per cui a centinaia i passeggeri bivaccano stanchi e irritati in attesa della sorte.
Mala tempora currunt, diceva il mio amico professore conscio che il suo latinorum è ormai desueto, ma dimentico che la frase giusta da usare era piuttosto, mala tempora cucurrunt. Cioè continuano a correre.