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La “rivolta di Enrico” non è altro che una sorta di risveglio, necessaria per apparire

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 di Umberto Cecchi

C’era chi voleva chiamarla pomposamente ‘la rivolta di Enrico’, ma qualcuno gli ha fatto notare che più che una rivolta, quella di Rossi, governatore a scadenza della Toscana era una sorta di risveglio. Una necessità di apparire per mantenersi un futuro possibile in qualche schieramento politico. Una rivoltina, insomma, che copiava la linea politica di sindaci di lungo corso come Orlando, quello di Palermo, che ogni tanto torna a galla come i tappi di sughero per ricordare a se stesso e agli elettori, che c’è ancora e che ha preso a scontrarsi con il governo sui temi dell’immigrazione.

E Rossi si è accodato con una manciata di sindaci di sinistra – ma è ancora esatto definire ‘di sinistra’ i sindaci PD, dopo che Renzi la sinistra l’ha rottamata e dove nessuno più ormai si interessa ai desedati nostrani? , per dare appoggio, si fa per dire, a quelli che arrivano da fuori. Immigrati che sono sati fatti entrare nel Paese in nome di un buonismo che è sempre più sospetto e che spesso rappresenta un nuovo modo di fare affari. Basta guardare le inchieste aperte sui vari centri di accoglienza per la cura e la sopravvivenza in un paese che li riceve a frotte, ma non pensa a farli sopravvivere, offrendo loro la possibilità di lavorare, di mangiare e di avere un asilo.

Il nostro purtroppo è un tempo di schiavitù ritrovata: soli, sbandati, disperati, fatti entrare in massa nel paese, gli immigrati che arrivano in Italia credendola il Paese dei Balocchi, rischiano davvero d’essere i nuovi schiavi del ventesimo secolo: operatori agricoli, tuttofare disperati compensati con una miseria. E i sindaci che dissentono dalle decisioni del governo, sanno benissimo queste cose: le sanno da anni, ma niente è cambiato. Per molti nessuna iniziativa va bene per correggere questo stato di cose. E l’immigrato è una nuova forza lavoro sempre più simile allo schiavismo, gestita da un caporalato inumano, ma evidentemente consentito che non ha dato adito a nessuna rivolta.

Mai in tanti anni. E che le istituzioni – tutte quante- non hanno saputo affrontare e smantellare.
Ecco perché la rivolta di Rossi è una rivoltina, perché accanto al no alle decisioni del governo, avrebbe dovuto fare fa tempo una cosa seria, lontana dalla demagogia, avrebbe dovuto emettere leggi regionali atte a migliorare l’esistenza di migliaia di immigrati abbandonati a se stessi, che non avendo altra possibilità per sopravvivere, rubano, entrano nella case occupandole– che per la nuova giustizia non è reato ma stato di necessità – , svaligiano interi quartieri e assumono come difesa ultima atteggiamenti arroganti: come adoperare gratis messi pubblici e minacciare chi chiede loro il pagamento dovuto; prelevare merce dai supermercati andandosene senza pagare. Noi al loro posto che faremmo? Credo la stessa cosa. Ma questo non significa essere nel giusto: l’operaio italiano, il disoccupato nostrano, ai quali i conti tornano sempre meno, non capisce questo lassismo, costretto com’è a rispettare le leggi del proprio paese, che abbia fame o no.

Insomma troppo facile per Rossi, dal Palazzo della Regione, fare la rivolta inzuppando il croissant nel cafe au lait, sembra un po’ la regina di Francia, che si chiede perché mai il popolo non vendo pane non mangia brioches. Se Rossi facesse una analisi politica seria su se stesso, dovrebbe lasciar perdere le minchiate teatral rivoluzionarie, e metter mano alle cose serie, contribuendo in maniera costruttiva alla soluzione di un problema che sta schiacciando il nuovo secolo, non con slogans logori ma con fatti concreti. Dov’è finita la sinistra italiana? Quella vera?

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